E’ morto Matteo Messina Denaro nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore de L’Aquila, dopo 8 mesi dal suo arresto. Il capomafia di Castelvetrano era stato portato nel supercarcere aquilano dove è stato sottoposto alle cure per il cancro al colon, seguito dall’equipe dell’Oncologia dell’ospedale de L’Aquila, curato in cella. Un mese fa, dopo due interventi, la situazione è precipitata e ne è stato disposto il ricovero nel reparto detenuti del nosocomio. Negli ultimi giorni con il peggiorare delle condizioni il capomafia è stato prima sottoposto alla terapia del dolore, poi sedato. Le visite dei pochi familiari ammessi le scorse settimane sono state sospese.
Nato il 26 aprile del 1962, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio 1993. Ed esattamente trenta anni dopo anche lui viene arrestato, quasi nello stesso giorno e i due sono legati anche dalle famoso archivio del capo corleonese che secondo il pentito Nino Giuffrè erano nelle mani del boss di Castelvetrano.
La sua latitanza è datata 2 giugno 1993. Uno degli ultimi avvistamenti è del 14 settembre 1993 proprio a Castelvetrano. Il racconto di quel giorno nel racconto di un investigatore dell’epoca. “Andammo al bar per un caffè e i nostri sguardi incrociarono quello di Matteo Messina Denaro. Allora il boss era ancora libero. Ci scrutammo a lungo, lui sapeva chi eravamo. Noi sapevamo tutto di lui, della sua famiglia e dei suoi amici politici. C’era una strana aria quel giorno”. Ed infatti qualche ora dopo il giovane boss partecipò insieme a Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano al fallito attentato al commissario Rino Germanà che, su mandato di Paolo Borsellino, indagava su Cosa Nostra nel trapanese.
“Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi”, dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio. Nel 1989 il padre lo fece partecipare agli omicidi di 4 uomini d’onore della famiglia di Alcamo in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi, strangolati e sciolti nell’acido, come la mafia usava fare in quei tempi. A vent’anni Messina Denaro partecipò attivamente, assieme ai corleonesi, alla guerra contro le famiglie ribelli di Marsala e del Belice. Divenne il pupillo di Totò Riina. Era già un mafioso però prendeva l’indennità di disoccupazione dall’Inps, e se ne vantava. A 27 anni venne denunciato per associazione mafiosa.
Tra le tredici condanne all’ergastolo inflitte a 16 boss per la strage di Capaci c’è anche Matteo Messina Denaro. Nell’attentato del 23 maggio del 1992 morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Fu tra i mandanti della strage di via D’Amelio a Palermo, nella quale persero la vita il magistrato italiano Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina: era il 19 luglio 1992.
Nello stesso mese Messina Denaro fu tra gli esecutori materiali dell’omicidio di Vincenzo Milazzo (capo della cosca di Alcamo), che aveva cominciato a mostrarsi insofferente all’autorità di Riina. Dopo pochi giorni dopo, strangolò barbaramente anche la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, che era incinta di tre mesi: i due cadaveri furono poi seppelliti nelle campagne di Castellammare del Golfo.
Il superlatitante è ritenuto responsabile anche della Strage dei Georgofili a Firenze avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 nei pressi della Galleria degli Uffizi, nella quale morirono cinque persone in seguito all’esplosione di un’autobomba. Per la giustizia italiane è stato mandante anche della strage di via Palestro a Milano, avvenuta il 14 maggio 1993, quando un’autobomba uccise cinque persone.
Si è risaliti a Messina Denaro anche per l’attentato di via Fauro a Roma, quando, il 14 maggio del 1993, un’autobomba esplose nei pressi della casa del giornalista Maurizio Costanzo, all’epoca molto impegnato nella lotta alla mafia. Sia Costanzo sia la moglie Maria De Filippo rimasero illesi, ma ci furono 24 feriti.
Nel novembre 1993, infine, il piccolo Giuseppe Di Matteo a soli 12 anni fu sequestrato su ordine di Messina Denaro per costringere il padre Santino a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci: dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere sciolto nell’acido.
Dopo 30 anni di latitanza viene arrestato il 16 gennaio 2023, nel frattempo Messina Denaro era sempre rimasto in Sicilia. (RaiNews)
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